Il profumo dello scirocco, che mi trascina in un angolo a scrivere parole intrise d’amore.
Le parole di una sconosciuta, una signora ottantenne che ci racconta della sua ribellione a suo padre, che la voleva zitta perché femmina, e di quando l’anno scorso è andata a Milano per il matrimonio di due suoi amici gay.
Lo sguardo di Gaia e Giovanna, quando mi parlano di come si sono conosciute ed è come cercarsi dentro la loro stessa storia e ritrovarsi sillaba dopo sillaba, coi gesti del volto, tra le pause e i silenzi. Ed io a stento trattengo una commozione che mi ricorda che c’è ancora vita, qui dentro, da qualche parte.
Il volo delle rondini come frecce scagliate da Dio, a promessa di una felicità a venire, tutte dentro il tuo cuore.
La pietra consumata dal tempo, i bambini che ridono, la volontà dell’edera e dei gerani di far capolino dai balconi. Il saluto finale della primavera, che supera ogni sua timidezza.
Di questi giorni a Lecce, porterò queste immagini con me.
Archivi tag: viaggio
Se l’anima non te li mette contro

in viaggio…
«In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.»
Costantino Kavafis, Itaca
…Lo sostiene anche il mio angelo guerriero. Attento, dice, non è ciò che perdi la cosa veramente importante. Ma il viaggio che hai fatto per cercare di conquistarla. E dimenticare questo – mi sussurra in lontananza, coi suoi occhi prelevati dai ghiacciai, mentre accarezza la sua spada di diamante – dimenticare questo è la vera sconfitta.
E allora, se così dove essere, così sia.
Come Itaca
Il corpo dovrebbe essere l’ultimo approdo. Come Itaca. Tutto il resto, dal primo sguardo al sondare le intenzioni, fino a quando cogli quella luce negli occhi pronta a trasmigrare in uno sfiorarsi gentile, tutto questo, dicevo, è il viaggio. Con le sirene dell’illusione. Con le coste dei Lestrigoni e il dubbio altrettanto vorace. Con il suo Polifemo e ogni astuzia per sconfiggerlo.
E proprio questa somiglianza col mito di Ulisse molto spesso ce lo fa apparire senza fine, né scopo o direzione.
Invece a volte è proprio il corpo il primo passo. Lo scrigno che diventa mappa del tesoro. Segui il sentiero della mia pelle, gli alberi delle mie gambe, il fiume tempestoso del desiderio liquido e bianco. Segui tutto questo, ma attorno. Oltre quel diaframma di pelle c’è il respiro. Il battito. Tutto questo lo trovi proprio in mezzo al sangue. L’involucro è meno pericoloso, più allettante. Perché se concedi ogni cosa di te, tranne l’anima, ti salvi. Per paradosso. O almeno così si crede.
E disimpari il linguaggio dei gesti e il profumo delle notti fredde, prima della primavera. Non sei nemmeno disposto ad usare due o tre semplici parole. Un sì. Un mi piace. Perché poi, se le cose dovessero andare come sempre vanno, ecco, poi è difficile tornare indietro e mostrare indifferenza. Col corpo è più facile: è come girarsi dall’altra parte del letto, dopo l’orgasmo, mentre arriva il sonno da condividere in due senza metterci in mezzo nient’altro. Tanto si sa, il mattino ha l’oro in bocca e meno ipocrisia.
Forse è per questo che la gentilezza disorienta. E si riesce a tradurre, a stento, la stele delle piccole cose. Perché si è persa la lingua dell’attesa, delle pause e delle cose. Tutte. Perché è come partire proprio dalla tua isola, per ricercarla altrove. Non puoi far altro che perderti. Non tornare più. Apolide, in patria d’altri. E con l’anima, ben stretta, nel forziere.
Mentre niente viene smarrito in quel tempo (reportage di Londra)
Il Tamigi che scorre indolente sotto il palazzo del parlamento, al severo cospetto del Big Ben.
Il London Eye, che ci ha fatto toccare il cielo.
Il British Museum, con la stele di Rosetta.
Le stradine di Londra, con le case che sanno di tè delle cinque.
La National Gallery e i Raffaello negati.
E poi.
La tonsillite, il dolore che supera il dicibile.
Notti intere a sudare, antinfiammatori al posto del cibo e qualsivoglia incapacità di deglutire con umana dignità. E quindi in ospedale – cioè cazzo sei a Londra e ti ammali! – e c’è lui, bello come tutti i sogni che hai sempre fatto, che ti guarda la gola e senti un fremito nei suoi occhi, mentre gli altri accorrono a vedere. Lui che ti accarezza il collo (sono solo linfonodi!), ti apre leggermente la bocca e ti senti in una puntata di Lady Oscar, quanto tutt’intorno sono rose e musiche languide, e mentre questo avviene lui, coi capelli del colore dell’alba e gli occhi lucidi come i sassi del fiume, infila un ago lungo come l’eternità e pone fine a ogni sofferenza. E intanto tu ringrazi madre natura per aver creato cotale bellezza e l’anestesia locale.
E poi, anche se fa male ancora e non riesci a parlare, niente riuscirà mai a ripagarti come gli sguardi benevoli dei tuoi ragazzi, che ti aspettano in stanza e ti inondano di chiacchiere e cioccolata. Allora pensi che in fondo in fondo sei fortunato, perché anche se cerchi di educarli al rigore e al timore ti vedono prima di ogni altra cosa come una persona e ciò è bene. E mentre le loro risate galleggiano nell’aria, sorridi di tutto questo e niente viene smarrito in quel tempo, e niente è perso, nemmeno l’ultimo sguardo perduto di chi avevi giurato di amare per sempre, quella volta dimenticata, altrove, su altre rive.
E poi succede che c’è altra sfortuna, ok, ma tanto sai che al ritorno ne parlerai alle tue streghe preferite, quelle che ti proteggono da tutto il male che c’è e alla fine quella sfiga tornerà per trecento volte a chi l’ha mandata perché è sempre così quando ci si mette contro i poteri di Chanel e allo scudo di Himelda.
Così torni a casa e pensi che Londra, nonostante tutto, è una bellissima città, che quasi quasi c’è più sole di una Roma che assomiglia sempre di più alla pioggia padana e al silenzio che separa dalle cose importanti e che alla fine, in un modo o nell’altro, le cose volgeranno al termine così proprio come devono andare.